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Channel: Vita Dolore – Movimento dei Focolari
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Muore il cardinale Miloslav Vlk

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Cardinal_Miloslav_VlkDa bambino sogna di fare il pilota, ma l’attrazione verso il sacerdozio lo accompagna fin dagli 11 anni. Nato il 17 maggio 1932 a Líšnice, provincia di Písek, nella Boemia del Sud, dal 1952 al 1953 fa l’operaio. Dal 1960, dopo la laurea, lavora come archivista ma presto abbandona l’attività per studiare teologia. Nel 1968 viene ordinato sacerdote.

Agli inizi degli anni ‘60, durante un viaggio nell’allora DDR (Germania dell’Est), incontra a Erfurt alcuni laici e sacerdoti che vivono la spiritualità del Movimento dei Focolari. È colpito dalla presenza di Gesù fra questo gruppo di cristiani, presenza che Egli promette “quando due o più sono uniti nel mio nome” (cf Mt 18,20). Questa esperienza di comunione lo accompagnerà sempre.
La sua opera pastorale a Ceské Budejovice infastidisce l’apparato statale comunista, che nel 1971 lo trasferisce nelle parrocchie della Selva Boema. Sette anni più tardi, a causa dell’ascendente che ha soprattutto sui giovani, gli viene ritirato anche il permesso di svolgere l’ufficio sacerdotale. «Ho perso la licenza, non posso più celebrare la Messa – spiega ai suoi parrocchiani –. Ho parlato e predicato della croce e mi sono raccomandato di portarla. Adesso è il momento per me di prenderla».

Ridotto ufficialmente allo stato laicale, Chiara Lubich accoglie la sua richiesta di vivere nel focolare di Praga che si era aperto nell’81. Come lavoro fa il lavavetri per 10 anni. Più volte racconterà: «Non potevo predicare né distribuire i sacramenti pubblicamente, ma guardando la croce ho capito che il mio Sommo Sacerdote, Gesù, quando era sulla croce non riusciva quasi a parlare e aveva le mani inchiodate. Mi sono convinto: “Adesso sei vicino al tuo Sommo Sacerdote” e ho abbracciato Gesù Abbandonato. La spiritualità dei Focolari mi ha guidato in questa direzione. Ho capito la forza di cui parla Isaia 53: “L’uomo del dolore”. (…) Ho vissuto per lungo tempo in questa luce: tutto ciò che è brutto può servire alla mia edificazione. Ho compreso, senza esagerare, che questi dieci anni da lavavetri sono stati gli anni più benedetti della mia vita». È solito ripetere: «Ritengo un miracolo che Dio abbia diffuso la spiritualità dell’unità nel mondo socialista, dove tutto era sorvegliato. Lui conosce sempre i “varchi”».

ChiaraLubich_CardinalVlk_BishopsCon la “Rivoluzione di velluto”, nel 1989 ridiviene parroco. Nel 1990 è nominato vescovo di Ceské Budejovice e l’anno successivo Arcivescovo di Praga. Dal 1992 al 2000 guida la Conferenza Episcopale Ceca e dal 1993 al 2001 diviene Presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee. Il 26 novembre 1994 è creato cardinale.

Dopo la morte del Vescovo Klaus Hemmerle nel gennaio del ‘94, iniziatore con Chiara Lubich della branca dei Vescovi amici del Movimento dei Focolari, la fondatrice invita l’Arcivescovo di Praga ad assumere il ruolo di moderatore. Succedere a mons. Hemmerle, grande teologo e figura carismatica, gli sembra impegnativo, ma Chiara Lubich lo rassicura: «Non tema, Eccellenza, Ella non sarà solo. Andrete avanti a corpo».
Il cardinale svolge questo incarico per 18 anni, convocando e sostenendo numerosi incontri internazionali di Vescovi, cattolici e anche di varie Chiese, tenuti a Castel Gandolfo (Roma), Istanbul, Gerusalemme, Beirut, Augsburg, Wittenberg, Londra, Ginevra, El Cairo, per nominarne solo alcuni.

Cardinal Vlk_02La partecipazione dei Vescovi all’Opera di Maria è di natura squisitamente spirituale, e non interferisce in alcun modo nei loro doveri di vescovi, come stabiliti dalla Chiesa. Essi riconoscono che la spiritualità dell’unità è «in profonda sintonia col Carisma episcopale, rafforza la collegialità effettiva ed affettiva e l’unità col Santo Padre e fra i Vescovi, e infine conduce ad attuare gli insegnamenti del Concilio Vaticano II sulla Chiesa–comunione». Così si legge nel regolamento della branca dei «Vescovi amici dell’Opera di Maria», riconosciuti come tali da Giovanni Paolo II ed approvati dal Pontificio Consiglio per i Laici con lettera del 14 febbraio 1998. Hanno espresso il loro apprezzamento per queste iniziative anche i capi di varie Chiese Cristiane.

Telegramma di cordoglio di Papa Francesco

Leggi anche: News.va

Corriere della sera

 


Miloslav Vlk

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Cardinal_Miloslav_VlkDa bambino sogna di fare il pilota, ma l’attrazione verso il sacerdozio lo accompagna fin dagli 11 anni. Nato il 17 maggio 1932 a Líšnice, provincia di Písek, nella Boemia del Sud, dal 1952 al 1953 fa l’operaio. Dal 1960, dopo la laurea, lavora come archivista ma presto abbandona l’attività per studiare teologia. Nel 1968 viene ordinato sacerdote.

Agli inizi degli anni ‘60, durante un viaggio nell’allora DDR (Germania dell’Est), incontra a Erfurt alcuni laici e sacerdoti che vivono la spiritualità del Movimento dei Focolari. È colpito dalla presenza di Gesù fra questo gruppo di cristiani, presenza che Egli promette “quando due o più sono uniti nel mio nome” (cf Mt 18,20). Questa esperienza di comunione lo accompagnerà sempre.
La sua opera pastorale a Ceské Budejovice infastidisce l’apparato statale comunista, che nel 1971 lo trasferisce nelle parrocchie della Selva Boema. Sette anni più tardi, a causa dell’ascendente che ha soprattutto sui giovani, gli viene ritirato anche il permesso di svolgere l’ufficio sacerdotale. «Ho perso la licenza, non posso più celebrare la Messa – spiega ai suoi parrocchiani –. Ho parlato e predicato della croce e mi sono raccomandato di portarla. Adesso è il momento per me di prenderla».

Ridotto ufficialmente allo stato laicale, Chiara Lubich accoglie la sua richiesta di vivere nel focolare di Praga che si era aperto nell’81. Come lavoro fa il lavavetri per 10 anni. Più volte racconterà: «Non potevo predicare né distribuire i sacramenti pubblicamente, ma guardando la croce ho capito che il mio Sommo Sacerdote, Gesù, quando era sulla croce non riusciva quasi a parlare e aveva le mani inchiodate. Mi sono convinto: “Adesso sei vicino al tuo Sommo Sacerdote” e ho abbracciato Gesù Abbandonato. La spiritualità dei Focolari mi ha guidato in questa direzione. Ho capito la forza di cui parla Isaia 53: “L’uomo del dolore”. (…) Ho vissuto per lungo tempo in questa luce: tutto ciò che è brutto può servire alla mia edificazione. Ho compreso, senza esagerare, che questi dieci anni da lavavetri sono stati gli anni più benedetti della mia vita». È solito ripetere: «Ritengo un miracolo che Dio abbia diffuso la spiritualità dell’unità nel mondo socialista, dove tutto era sorvegliato. Lui conosce sempre i “varchi”».

ChiaraLubich_CardinalVlk_BishopsCon la “Rivoluzione di velluto”, nel 1989 ridiviene parroco. Nel 1990 è nominato vescovo di Ceské Budejovice e l’anno successivo Arcivescovo di Praga. Dal 1992 al 2000 guida la Conferenza Episcopale Ceca e dal 1993 al 2001 diviene Presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee. Il 26 novembre 1994 è creato cardinale.

Dopo la morte del Vescovo Klaus Hemmerle nel gennaio del ‘94, iniziatore con Chiara Lubich della branca dei Vescovi amici del Movimento dei Focolari, la fondatrice invita l’Arcivescovo di Praga ad assumere il ruolo di moderatore. Succedere a mons. Hemmerle, grande teologo e figura carismatica, gli sembra impegnativo, ma Chiara Lubich lo rassicura: «Non tema, Eccellenza, Ella non sarà solo. Andrete avanti a corpo».
Il cardinale svolge questo incarico per 18 anni, convocando e sostenendo numerosi incontri internazionali di Vescovi, cattolici e anche di varie Chiese, tenuti a Castel Gandolfo (Roma), Istanbul, Gerusalemme, Beirut, Augsburg, Wittenberg, Londra, Ginevra, El Cairo, per nominarne solo alcuni.

Cardinal Vlk_02La partecipazione dei Vescovi all’Opera di Maria è di natura squisitamente spirituale, e non interferisce in alcun modo nei loro doveri di vescovi, come stabiliti dalla Chiesa. Essi riconoscono che la spiritualità dell’unità è «in profonda sintonia col Carisma episcopale, rafforza la collegialità effettiva ed affettiva e l’unità col Santo Padre e fra i Vescovi, e infine conduce ad attuare gli insegnamenti del Concilio Vaticano II sulla Chiesa–comunione». Così si legge nel regolamento della branca dei «Vescovi amici dell’Opera di Maria», riconosciuti come tali da Giovanni Paolo II ed approvati dal Pontificio Consiglio per i Laici con lettera del 14 febbraio 1998. Hanno espresso il loro apprezzamento per queste iniziative anche i capi di varie Chiese Cristiane.

Telegramma di cordoglio di Papa Francesco

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Corriere della sera

 

Nel cuore della città si accende la fraternità

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20150119-aDa noi il 25 dicembre non è vacanza – racconta una volontaria di un Centro per bambini con disabilità. Tuttavia, avvisando con anticipo le famiglie dei bambini disabili che stanno facendo la riabilitazione da noi, almeno quel giorno ci fermiamo. Così, di comune accordo con i ragazzi del team, abbiamo pensato di trascorrere il Natale presso il Centro, pranzando insieme.

I ragazzi hanno invitato anche alcuni giovani che durante l’anno ci hanno aiutato nel servizio presso gli orfanotrofi, contenti di esserci. Alcuni fra loro sono cristiani, altri no, come la maggior parte delle persone attorno a noi, ma il desiderio di essere una famiglia è nel cuore di ognuno.
Quando ci salutiamo c’è in tutti uno sguardo di gioia, come quando si attende qualcosa di bello.

In questo periodo sono alloggiate vicino al Centro, dove cerchiamo di mettere in pratica la spiritualità dell’unità, alcune famiglie con i loro bambini che stiamo seguendo: vengono da lontano. Stanno vivendo situazioni molto difficili e dolorose, per tanti motivi. Anche se il servizio è sospeso, abbiamo detto loro se volevano venire per trascorrere insieme un momento di festa. Tutte hanno detto di sì. Una mamma ha pianto, tanto era felice della proposta: “So che il Natale per voi è una festa molto importate, se mi invitate vuol dire che allora anch’io sono importante!”.

Un’altra mamma, circa tre settimane prima aveva preso il treno per venire in città col marito e far visitare la loro bambina affetta da una forma severa di paralisi cerebrale. Ha girato alcuni posti ma tutti le hanno detto che non valeva la pena fare tanta fatica, era meglio tornare a casa e lasciare le cose come stavano. Con una grande pena in cuore, ha già in mano il biglietto del treno per il pomeriggio. Si ricorda però di una sua parente cristiana che tempo prima le aveva parlato di una chiesa dove era stata. Anche se lei non è cristiana, sente un impulso a cercare questa chiesa. La trova, e vi incontra un sacerdote. Questi conosce un giovane del nostro team, che canta nel coro della chiesa, e le dice: “Guardi, qui ad un quarto d’ora a piedi c’è un posto dove visitano i bambini come la sua, provi ad andare”. Le spiega la strada e arrivano da noi. Anche se non c’è appuntamento, due di noi le accolgono. Dopo poco lei chiama il marito che le aspettava alla pensione e gli dice: “Non partiamo più”.

Abbiamo poi compreso che il rapporto fra di loro sta attraversando un momento di crisi, a motivo della bambina:“Quando sono arrivata qui, la cosa che mi ha colpito di più è stato il sorriso delle persone. Ho ritrovato la speranza ed anche mio marito è meno depresso”.
L’invito alla Festa è esteso anche a loro. Natale… un Dio che si fa piccolo per renderci tutti fratelli!

Filippine: «Essere è più importante che avere o fare»

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Eugene è un ingegnere, Ann un tecnico informatico. «Ma – precisa lei – dopo 10 anni di brillante carriera ho deciso di dedicarmi completamente al nostro progetto di famiglia. Subito dopo questa decisione, l’attesa di un bambino ci ha riempito di gioia». A novembre 2009 la felicità per la nascita di Erin dura poco. Dopo due settimane, il 6 dicembre, notando una certa difficoltà a nutrirla, decidono di portare la piccola in ospedale. Dopo alcuni accertamenti, la diagnosi parla di sepsi neonatale e meningite, potenzialmente letale. Eugene e Ann rivivono quei momenti con commozione. «Era il 7 dicembre – ricorda Eugene – il mattino presto abbiamo rinnovato il nostro “sì” alla volontà di Dio. Subito dopo il medico ci informa che l’infezione era in uno stadio avanzato e la bambina in condizioni critiche. Il pomeriggio, Erin ha ricevuto il battesimo».

Il giorno dopo, il battito è debole, gli occhi insensibili alla luce. I medici consigliano di trasferirla in un ospedale più attrezzato, e più costoso. Sempre Eugene: «Ann mi ha aiutato a compiere un atto di fede, accettando di fare tutto e di preoccuparci delle spese in seguito. Ho chiesto a Dio: “Perché?”. In ambulanza cercavo di stimolarla, accarezzandola e cantandole la ninna nanna. Il battito stava cessando. Ma in fondo continuavamo a credere che ci fosse una ragione, anche se incomprensibile. Ancora una volta pronunciamo il nostro “sì”. Al pronto soccorso, vedendo il suo corpicino pieno di aghi e tubicini, non potevamo non piangere, rendendoci conto della gravità della situazione. Era l’8 dicembre, festa dell’Immacolata Concezione di Maria. Nella cappella dell’ospedale Le affidiamo la nostra piccola».
Ann: «La situazione era critica, l’infezione sembrava aver raggiunto il cervello. In passato, ci dicono i medici, altri pazienti in analoghe condizioni non erano sopravvissuti o erano rimasti handicappati. Ci restava solo da sperare e pregare. Ancora prove, trasfusioni, ulteriori esami. Erin sembrava un piccolo Gesù crocifisso, sofferente e impotente. Potevamo solo stare anche noi “ai piedi della croce”, come Maria».

Passa 2Riprende Eugene: «Ci guardavamo, assicurandoci l’un l’altro il nostro amore e il desiderio di restare uniti. Quella notte, ci siamo chiesti se fossimo davvero pronti a qualsiasi cosa. Ann si ricordò di Abramo, pronto a sacrificare il figlio Isacco. E di Giobbe, fedele anche quando aveva perso tutto: “Il Signore dà, il Signore prende”. Erin non era nostra, apparteneva a Dio». Ann si illumina: «Con il passare dei giorni, notavamo però dei miglioramenti. Erin rispondeva bene alle cure. Un esame approfondito rivelò che l’attività cerebrale era normale, nonostante la gravità dell’infezione. Presto i medici e gli infermieri lo definirono un piccolo miracolo. Giorno dopo giorno, diventava sempre più forte, una piccola donna che combatteva coraggiosamente per vivere. Grazie a lei, abbiamo imparato che “essere” è più importante di “avere” o “fare”. Ci stava insegnando la vita».

Eugene: « In ospedale abbiamo trascorso il nostro primo Natale in tre. In mezzo a tante incertezze ci siamo ricordati quello che Chiara Lubich aveva detto: “Solo Dio è fonte di gioia e di felicità piena”. Ci sostenevano la presenza di Gesù in mezzo a noi, la comunità dei Focolari, la famiglia e gli amici. Dopo 23 giorni siamo tornati a casa. Erin era guarita del tutto».

Conclude Ann: «Come tutti, abbiamo anche noi le nostre preoccupazioni. Ma sappiamo che le nostre figlie appartengono prima di tutto a Dio. Compito di noi genitori è accompagnarli nella scoperta del disegno che Dio ha su di loro». Mentre parlano, Erin, vivacissima, gioca allegra con la sorellina Anica. 7 e 5 anni di gioia e spensieratezza.

Vangelo vissuto: dalla morte alla vita

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Sono nato in Trentino, regione del nord Italia, 67 anni fa. Durante l’adolescenza i miei unici interessi erano la musica e il disegno. Per i continui conflitti con i miei, ben presto abbandonai casa e scuola. Chitarra, capelli lunghi, la mia band: questo divenne il mio mondo. Con alcuni amici formammo una comune dove vivevamo, suonando e sognando insieme. Un posto di passaggio, dove circolava l’hashish. Conobbi Anna, che divenne la mia compagna, con la gioia e l’incoscienza dei vent’anni. Lei, saltuariamente, faceva uso anche di droghe pesanti. Per aiutarla a smettere feci un gesto di cui in seguito mi sarei pentito amaramente: provai anch’io. Fu l’inizio di una china che giorno dopo giorno ci condusse in un abisso senza fondo, nella prostrazione di dover reperire dosi quotidiane sempre più forti.

Anni di paura, di euforia alternata a crisi d’astinenza, ricoveri in ospedale e continue ricadute. Fino al carcere. Scontata la pena, decidemmo di partire per l’India per imparare a suonare i Tabla, tipico strumento a percussione. L’India ci apparve affascinante, al punto da farci dimenticare l’Occidente e il suo materialismo, riuscendo a stare lontani da qualsiasi droga. Al rientro l’impatto fu molto duro. L’Italia in quel periodo era come paralizzata dal terrorismo di stampo politico. Disorientati, trovammo di nuovo conforto tra le braccia dell’eroina, ci aiutava a non pensare. Il vortice della tossicodipendenza ci risucchiò in un modo ancora più spietato. Seguirono anni di degrado fisico e morale. Fino a un bivio drastico: la pazzia o la morte. Tornai in India per disintossicarmi. Ma da solo, per evitare di condizionarci e di ricadere nel giro. Di nuovo in Italia, accettai, di malavoglia, di andare da uno zio in Toscana.

La cittadella di Loppiano

Fu la svolta. Da lui, stranamente, mi sentivo accettato e rispettato, come uno di casa. L’idea che animava la vita della sua famiglia era che Dio è Amore, ama tutti personalmente e senza condizioni. Questa proposta cominciò ad affascinare anche me. Il 1° maggio 1982, con i miei cugini, andammo a Loppiano per un meeting di giovani di tutto il mondo. Sempre più convinto di voler fare mia questa vita, cercavo di stare a stretto contatto con gli abitanti della cittadella, che, avevo scoperto, avevano messo a base della loro vita il Vangelo.

Desideravo comunicare ad Anna quanto mi era accaduto, e andai a trovarla in Trentino. La sua reazione fu comprensibilmente dura, si sentiva tradita. Dopo alcuni mesi, mi scrisse una lettera. Era in carcere, voleva vedermi. Ringraziai Dio: dal fondo non si può che risalire.“Fa’ di me uno strumento per la sua redenzione!”, pregavo. Ogni settimana mi recavo da lei per un colloquio. Scontata la pena, dopo un anno e mezzo, iniziammo insieme una nuova vita, aiutati costantemente dalla nostra nuova famiglia, i Focolari. Maturammo il desiderio di sposarci in chiesa. La vita prese a scorrere serena e fiduciosa, arricchita dall’arrivo di due figlie. Anna si diplomò infermiera professionale. Ma proprio sul posto di lavoro, dopo qualche tempo, perse la testa per un collega. Chiese la separazione. Dopo aver lottato invano per evitare questa rottura, trovai un appartamento e andai a vivere da solo.

Quindi i primi segnali di una malattia al fegato, sempre più grave, fino alla necessità di un trapianto. I medici dissero che mi restavano poche settimane di vita e mi ricoverarono immediatamente. Un tempo prezioso, quello trascorso in ospedale, in cui cercavo di preparare la mia anima, fissandola solo in Dio, con quotidiani atti d’amore verso gli altri ammalati, specie quelli più soli. Si trovò un fegato compatibile per tentare il trapianto. L’esito fu al di sopra delle aspettative, e dopo qualche tempo venni dimesso.

Due anni fa una telefonata: Anna mi chiedeva di stare con le figlie, perché lei doveva essere ricoverata. Corsi subito. La diagnosi, senza appello, insperatamente aveva riunito la famiglia. Ci siamo perdonati a vicenda, grati di poter fare questo ultimo tratto di strada insieme. Negli ultimi istanti, mentre lentamente sussurravo al suo orecchio, più volte, “Ave Maria”, lei di tanto in tanto accompagnava la mia preghiera con un sospiro: mai prima avevamo pregato insieme. Alle ultime parole del “Salve Regina”, …mostraci, dopo questo esilio, Gesù.., Anna è volata in Cielo.

Un nuovo noi

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“Sei stata tu a farci capire che il matrimonio significa apertura, realizzazione del progetto che Dio ha su di noi. Faremo tutti i nostri sforzi perché la famiglia e il mondo diventino come devono essere”. Maria da Conceição, per tutti noi semplicemente São, aveva scritto queste parole a Chiara Lubich, appena cominciata la nostra avventura. Ci siamo sposati a Braga nel 1981 – racconta Zé Maia – e dalla nostra unione sono nati sei figli. Poi sono arrivati i nipoti, che sono già nove. La stessa Chiara Lubich, tempo prima, le aveva indicato una frase del Vangelo come programma di vita: “Egli deve crescere e io diminuire” (Giov. 3, 30). Quante volte me l’aveva ripetuta!»

Zé e São, entrambi portoghesi, nel 2002 si erano trasferiti con i figli alla cittadella dei Focolari “Arco Iris”, 50 chilometri da Lisbona, per dare un contributo concreto alla sua costruzione. Nel novembre 2016, São stava partecipando, al Centro Mariapoli di Castelgandolfo (Roma), al convegno “Insieme per l’Europa”.
«Prima di partire – prosegue Zé – mi aveva confidato: “Sono contenta di parteciparvi, credo che sarà questo il cammino che dovremo fare”. È stato il suo ultimo atto di amore, nella gioia di dare la propria vita per gli altri. Il giorno 11, all’improvviso, per un infarto, Dio l’ha chiamata a sé.

E adesso? Sto facendo l’esperienza di vivere lei, che è in me, in quella “sola carne”, tra cielo e terra. Non posso perdere la freschezza delle sue ultime parole, quella sfida ad “andare avanti insieme e con coraggio”. Ricomincio ogni giorno, con lo stimolo e l’aiuto della vita del focolare. A casa, in famiglia, stiamo scoprendo un “nuovo noi” e sperimentiamo che quello che abbiamo costruito con l’amore rimane. E continua, perché l’eternità è il perfetto amore. Vivo nella ricerca continua di come diventare, insieme, padre e madre. Vivo come se São fosse qui con me, facendo casa agli altri, o nelle spese. Insieme a lei prendo dei fiori, preparo un buon pranzo per i figli o quelle cose buone che piacciono ai nipoti. Insieme a lei dico una parola che corregge, costruisce, o incentiva. È un dialogo continuo, tra terra e cielo. Ho fatto una nuova scoperta, Gesù Eucaristia. Lì è il momento del “nostro” incontro. I momenti di dolore esistono, ma ci fanno dilatare il cuore verso il prossimo. La solitudine c’è, è un’ombra vera. Bisogna voltarle le spalle e guardare la luce. Alla fine di ogni giornata scopro la gratitudine, quando alzo lo sguardo per riuscire a vedere l’invisibile, anche se la paura appare come un ladro, di nascosto, per rubarci la pace. A volte l’anima desidera volare via, andare in un altro posto. Ma poi lascio che quel raggio di luce mi parli, mi saluti e mi accompagni».

«Talvolta scrivo due righe ai figli, per raccontare loro quello che sto vivendo con la loro madre: “Ogni giorno, nel caleidoscopio dell’anima, lei si mostra con nuove bellezze, con tutte le sfumature del cielo azzurro. E allora la contemplo nel suo mistero”. La vita continua, fatta di momenti di famiglia e di vita di comunione con tutti. Sì, è vero, sento il bisogno di lei, della sua compagnia, della sua complicità, della sua condivisione. Non si è mai pronti a vedere partire il proprio compagno, a restare soli, senza la sua parola o il suo sguardo, sotto ogni aspetto, affettivo, psicologico, relazionale. Ma anche in concreto, con i figli, la famiglia, il lavoro. Nel ’67, Chiara Lubich aveva rivolto alle famiglie questa riflessione: quando uno dei due “parte” per il cielo, “avviene che il matrimonio, che aveva fatto di due creature una sola cosa, non solo fisicamente ma spiritualmente, per il sacramento del matrimonio, si rompe, per volontà di Dio.

È qualche cosa di divino – se così si può dire – come una piccola Trinità che si spacca”. Si vive allora una vera purificazione, che si affronta mettendosi ad amare chi ci sta intorno.
Quest’anno ho scoperto cosa significhi Dio-Amore, l’Amore: più che le cose di Dio, Dio stesso. Solo l’amore resta. Abbiamo ritrovato una breve preghiera scritta da São: “Aiutaci a diventare la famiglia che tu hai pensato. Dammi la grazia di superare le difficoltà con sapienza, ingegno, intelligenza e bontà. Aiutaci a vedere tutto con la tua luce”».

Lettera dal carcere

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«Questa lettera per me è preziosa come le parole scritte da Chiara Lubich:
“Io posso immaginare che tutti voi … sentiate il peso che la violenza e il terrorismo siano in intere nazioni. Dei giovani non più grandi di voi, credono di poter cambiare la società con rapimenti, uccisioni e commettendo i crimini più svariati. Senza dubbio loro non hanno trovato ideali più positivi e si sono così lasciati andare in strade estremamente pericolose. Molta gente è spaventata e non può vivere in pace. Cosa possiamo fare? Quale contributo possiamo dare?”.

Queste parole riassumono perfettamente quello che sto passando ora. Vorrei condividere quello che sto vivendo e di come io mi senta abbandonato in questo momento; forse un po’ come si è sentito Gesù quando era abbandonato sulla croce. Questo senso di abbandono è qualcosa che ho sperimentato nei quattro centri di detenzione dove sono stato e dove mi sono ritrovato con ragazzi che erano la maggior parte, più giovani di me.

All’inizio questi ragazzi mi spaventavano, erano contro di me e volevano perfino ammazzarmi. Ma ho provato ad avvicinarli e mi sono reso conto che quello che a loro mancava era di essere capiti, una mancanza di opportunità e di conseguenza una mancanza d’amore. Non sto cercando di giustificali, ma anche loro hanno bisogno di amore e di aiuto, solo che lo chiedevano richiamando l’attenzione su sé stessi, nel modo sbagliato, ma era l’unico modo che conoscevano.

I miei genitori cercano di vivere per un mondo unito e, fin da quando sono piccolo, anche io. È più facile quando fai parte di una comunità in cui si cerca di vivere in questo modo. Mentre per le persone che hanno paura di lasciarsi amare è più difficile, specie quando vedi che questo amore non è corrisposto e si è circondati da ladri e assassini. In ogni modo l’amore sfonda tutti i limiti ed è questa la verità più preziosa, nonostante quello che sto vivendo qua.

Ora questi ragazzi vengono nella mia cella per chiedere consigli o aiuto, in particolare quando attraversano un brutto momento; qualcuno vuole persino sapere di più sui Giovani per un Mondo Unito di cui faccio parte, nonostante la mia situazione. Tanti mi domandano come sto, se ho bisogno di qualcosa, qualcuno addirittura mi chiama fratello.
Quello che sto vivendo in prigione può diventare un’invasione d’amore che si diffonde pian piano dove regna la violenza. Così come la pioggia leggera che penetra dolcemente nelle profondità della terra…».

Ana e la croce di Hugo

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Ana ha 19 anni, vive in Spagna. Comincia a raccontare mentre avanza, senza timidezza, sul palco dell’Aula Paolo VI. «Per conoscere meglio il settore socio-sanitario, all’inizio di marzo sono stata in un ospedale della mia città» racconta. In ospedale, viene accolta da un’assistente sociale che, invece di dilungarsi in discorsi, le presta un camice, le mette in mano una cartella clinica e l’accompagna nella stanza di un paziente: «Quando sono entrata e l’ho visto, un brivido mi ha attraversato il corpo. Sono dovuta uscire un momento per fare un respiro profondo». Sul letto, c’è un ragazzo di poco più grande di lei, malato terminale di cancro. Ana si fa coraggio e rientra in stanza: «Come stai?» Lui la guarda stupito, e le fa ripetere la domanda. «Come prima cosa mi presento – le dice –, sono qui da due mesi, ho un osteosarcoma, mi rimane poco tempo da vivere e sento che sto perdendo tutto: la famiglia, il lavoro, la ragazza. La mia vita non ha più senso».

Ana è in stato di shock. Milioni di emozioni e pensieri le attraversano il cuore e la mente. Tuttavia, tenta di intavolare una conversazione raccontandogli qualcosa di se e della sua vita. Dopo alcuni minuti di silenzio, il ragazzo le chiede: «Tu credi in Dio?». Ancora una volta, Ana è colta di sorpresa ma gli risponde con un bel “sì”. «Io, invece no, perché mi ha abbandonato – soggiunge lui –, perché nel giro di pochi mesi mi toglierà la vita. Mi ha lasciato molto solo».

La giovane andalusa si affida a Dio prima di replicare: «Quello che senti ora ha un nome, è ‘Gesù abbandonato’. Dio non ti ha abbandonato. Continua a starti accanto più vicino che mai. Ti sta mettendo alla prova e con quello che vivi ti fa una domanda, alla quale forse non hai ancora risposto: “Sei in grado di seguirmi anche nel più grande dolore?”. Lui ha scelto questa croce per te, e solo per te, per una ragione, perché vuole che tu dia testimonianza del suo amore. Vuole farti santo. Tu puoi diventare santo se accetti e accogli il dolore, se lo prendi come qualcosa che viene da Dio e non come qualcosa di tuo. Poi, senza pensarci, inizia ad amare le persone che hai più vicino a te, i tuoi genitori, la tua ragazza, i tuoi amici, facendo vedere loro che non temi la morte perché hai trovato qualcosa di prezioso che ti aiuta a vivere momento per momento, senza pensare cosa ne sarà di te domani». «Attraverso l’assistente sociale ho saputo che alcuni giorni dopo la mia visita, la sua salute è peggiorata – racconta Ana – e che ha chiesto di ricevere l’unzione degli infermi, per potersene andare in pace. Qualche tempo dopo, ho ricevuto questa lettera…».

Sul palco dell’Aula Paolo VI è un giovanissimo attore a prestare la voce ad Hugo: «Ciao Ana, ti racconto qualcosa di me. Questi giorni sono stati difficili perché il cancro è avanzato più velocemente, ero più stanco, più debole, ma erano quelle le occasioni in cui dovevo amare di più. Sono state giornate difficili perché vedevo la morte sempre più vicina e questo mi spaventava un po’, ma quando succedeva, mi ricordavo che non è la morte che chiama, ma Dio: mi chiamava per andare con Lui in Paradiso, e questo mi dava la forza di sorridere, di amare. Ormai mi rimane poco tempo qui, Ana, ma devo dirti che adesso non ho paura perché so che lì starò bene. Grazie per avermi tirato fuori da quel buco profondo, per avermi ascoltato, ma soprattutto grazie per aver portato di nuovo Dio nella mia vita. Voglio che da ora tu viva per entrambi, che ti diverta per entrambi e che realizzi tutti i tuoi sogni. Io sarò sempre accanto a te e, dal Paradiso, mi prenderò cura di te ogni giorno, sarò come il tuo piccolo angelo custode. Ho dato all’assistente sociale una croce che volevo che ti consegnasse da parte mia, la porto da quando ho fatto la Prima Comunione, ma voglio che la tenga tu perché, quando la guardi, tu ti ricordi che questa è la Croce che Dio ha voluto per te che va portata con gioia e amando sempre. Ti aspetto in Paradiso, Ana».

Tamara Pastorelli

Fonte: www.cittanuova.it


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